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Dipartimento affari giuridici e legislativi - Ufficio contenzioso, per la consulenza giuridica e per i rapporti con la Corte europea dei diritti dell'uomo

Notizia

Legge Pinto

27/02/2014

Si segnala la sentenza n. 30 del 24 febbraio 2014 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, lett. d), del decreto-legge 22 giugno 2012 , n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, sostitutivo dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (legge Pinto), sollevata dalla Corte d’appello di Bari, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, § 1, della CEDU, nella parte in cui non consente di proporre la domanda di equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo durante la pendenza del procedimento. La Corte ha tuttavia rilevato la carenza di effettività del rimedio così come disciplinato dalla legge Pinto ed ha rivolto un monito al legislatore affinché l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo.

La nuova formulazione dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 dispone che “la domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”.

A giudizio del remittente l’aver condizionato l’azionabilità della domanda di equa riparazione all’esito definitivo del giudizio determinerebbe un’ingiustificata discriminazione in danno di chi subisca l'eccessiva durata di un processo non ancora concluso, costituendo una violazione indiretta del diritto alla ragionevole durata del processo. La norma contrasterebbe con l’art. 3 Cost., in quanto consentirebbe di agire in giudizio a chi lamenti l’eccessiva durata di un processo che si è concluso e non a chi si dolga dell’eccessiva durata di quello che non si è ancora concluso – nonostante nel secondo caso la lesione appaia più grave – anche quando sia già maturato un notevole ritardo e con riferimento ad un diritto primario quale quello alla retribuzione lavorativa. Con riferimento all’art. 6 della CEDU, la disposizione censurata priverebbe il rimedio dell’equa riparazione del requisito della effettività.

La Corte costituzionale ha dichiarato la questione inammissibile poiché “l’intervento additivo invocato dal rimettente – consistente sostanzialmente in un’estensione della fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quella caratterizzata dalla pendenza del giudizio – non è possibile, sia per l’inidoneità dell’eventuale estensione a garantire l’indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perché la modalità dell’indennizzo non potrebbe essere definita “a rime obbligate” a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo”.

Tuttavia, con riferimento al parametro di cui all’art. 6, § 1, della CEDU, la Corte ha rilevato che la Convenzione impone agli Stati contraenti l’obbligo di organizzare i propri sistemi giudiziari in modo tale che i loro giudici possano soddisfare ciascuno dei suoi requisiti, compreso l’obbligo di trattare i casi in un tempo ragionevole […]. Laddove il sistema giudiziario è carente in questo senso, la soluzione più efficace è quella di un mezzo di ricorso inteso a snellire il procedimento per evitare che questo diventi eccessivamente lungo. Qualora lo Stato opti per il rimedio risarcitorio, detta discrezionalità incontra il limite dell’effettività, che deriva dalla natura obbligatoria dell’art. 13 CEDU (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Cocchiarella contro Italia), secondo il quale: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale […]”. Tanto premesso ha quindi affermato che: “È specificamente sotto tale profilo – peraltro oggetto di censura da parte del rimettente – che il rimedio interno, come attualmente disciplinato dalla legge Pinto, risulta carente. La Corte EDU, infatti, ha ritenuto che il differimento dell’esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui il ritardo è maturato ne pregiudichi l’effettività e lo renda incompatibile con i requisiti al riguardo richiesti dalla Convenzione (sentenza 21 luglio 2009, Lesjak contro Slovenia). Il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia (sentenza n. 279 del 2013)”.

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